October 28, 2015 at 11:25AM


“Les revenants” è la cosa più interessante che ho visto sugli schermi (la situazione è questa: gli schermi…) dopo l’apparizione non reiterata di “True detective”, ovvero l’unico “True detective”, vale a dire la prima stagione di “True detective”. Sono moltissimi gli elementi di innovazione e diversità rispetto allo stream americano, che la serie francese presenta con una nonchalance assai prossima all’inconsapevolezza. Uno di tali elementi risiede appunto nella coerenza con cui viene portato avanti un sistema narrativo in totale ingenuità: si tratta di un sistema narrativo che non lo è, non è narrativo e non è antinarrativo. E’ una nebulosa. All’interno della nebulosa c’è di fatto una coerenza, poiché le molecole stanno pur sempre insieme, grazie a una forza di attrazione bassa, non troppo intensa, il che evita il collasso in materia della nebula stessa, cioè il passaggio di stato da gassoso a liquido o a minerale. Così in “Les revenants”, di cui ho terminato la visione della seconda stagione, essendomi lasciato trasportare dalle allusioni assolute, prive di referenza e di significazione algoritmica, cioè prive di risoluzione. Questa precarietà allusiva del sistema “Les revenants” non si è mai vista, se non in “Twin Peaks”, e non sarà inutile ravvedere in certi spunti (comunità isolate in montagna, luoghi topici e funzionali, gerarchie) alcuni elementi comuni – e già qui si può osservare come l’effetto totale raggiunto dalla serie francese consista nell’istituire l’azzeramento totale del simbolico: non ha alcun senso ravvedere simiglianze con la serie di Lynch eppure questi elementi esistono. “Les revenants” è tutto così: ogni azione, ogni gesto, ogni svolta narrativa, ogni utilizzo di elementi di genere – praticamente tutto ha referenze specifiche e tuttavia ciò non significa nulla. Sarà utile fare un discorso sbagliato, che una volta si sarebbe detto emblematico, mentre a fronte di questa produzione non è assolutamente significativo: la questione è la resurrezione dei morti, peraltro in Francia, paese ex cattolicissimo, cioè devoto all’unica fede che proclama la resurrezione dei corpi fisici, e, se pure la chiesa e il prete sono funzioni continuamente presenti, non accade nulla che faccia scattare l’arco voltaico tra resurrezione cristica e ritorno dei morti. La questione viene pure posta esplicitamente, ma scorre via, non è fondamentale. Così accade con tutto: i morti viventi non sono zombie, anche se si comportano come da tradizione di genere, nutrendosi di corpi umani e animali – ma saltuariamente e senza alcun rapporto con la mitologia laicissima della narrativa di genere. E pure l’amore, la famiglia, le istituzioni giuridiche e militari, l’altruismo, la pietà, la compassione, il maschile e il femminile, il sesso, il pettegolezzo. C’è un momento della seconda stagione in cui tutto appare ruotare intorno a un personaggio centralissimo: sì?, è davvero così?, proprio come accade in certi film horror? E la storia, la storia… Quale sarebbe la storia? La penultima puntata della seconda stagione, nei tre minuti iniziali, dà una spiegazione a tutto, a qualunque fatto, a qualunque evenienza, a qualunque personaggio: uno sente così e già all’inizio della puntata successiva se ne è scordato. “Les revenants” è la prima serie filmata che rende esplicito un discorso che la migliore letteratura contemporanea sta portando avanti da almeno vent’anni: si va avanti scordando, mentre si ha tutto presente. Siamo ben oltre il patto col lettore e quello con lo spettatore. La croce esiste e continua ad avere un senso, ma è talmente relativo e locale, che davvero siamo già a occuparci di un altro segno e di un’altra significazione transeunte. Tutto evapora. Resta la nebbia, la nebula. Siamo dentro la nebula. Ricordiamo, abbiamo presenti, sono attivi in noi unicamente stati cromatici: l’azzurro e il gelo, il marrone terragno o legnoso con il verde cupo. La regia dissocia se stessa dall’azione narrativa e dalla mimesi, ma fa mimesi, istituendo stati percettivi differenziati, assai pochi, ma persistenti. L’effetto ottenuto, con modalità antagoniste e spettacolarmente inavvicinabili, è esattamente quello della prima stagione di “True detective”, dove, imponendo a chi vede la suresposizione di simboli (si pensi al ritrovamento del cadavere all’inizio della serie), si ottiene l’assenza di appoggio simbolico, per surriscaldamento del simbolico. Con modalità opposte, al calor bianco “Les revenants” propone l’azzeramento frigido, esso stesso pure bianco. Se l’allusione continua a motivi e tradizioni scatenanti (uno è colpevole di questo per questo motivo, un altro fa quest’altra cosa per quest’altro motivo: a ogni sequenza così, sempre così, sempre mutando, sempre abbandonando la continuità, con una levità sospesa nel gelo) procede a questa velocità, l’impressione sarà che tutto è fermo: come gli ultimi morti, che si muovono stando immobili. Non dico che si tratta di arte, ma certamente l’interesse è enorme, poiché qui si dà concreta rappresentazione a un elemento cruciale del nostro tempo: la persistenza nella narrazione che non c’è, lo stare nella lingua che non soltanto finisce, ma è già finita. Ah, le prime quattro puntate le ha scritte Emmanuel Carrère: la serie, infatti, comincia a interessare a partire dalla quinta puntata. Fossi in voi guarderei queste due stagioni, che mi sorprenderei se avessero un seguito.

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