“Liberal” di Paolo Sortino


Adesso devo dire alcune cose su un libro che ritengo incredibile, su uno scrittore italiano che stimo tantissimo, sulla letteratura che va disfacendosi sempre, sulla lingua e l’immagine: devo dire alcune cose di “Liberal” di Paolo Sortino, uscito in questi giorni per i tipi de Il Saggiatore. Di cosa si tratta lo si può precisamente sapere dallo splendido testo di aletta, che si deve ad Andrea Morstabilini (si veda http://bit.ly/1cQarkj), oltreché dalla citazione che sta in quarta di copertina, parole scritte da Sortino che a mio dire risultano pesanti e lievi in quanto ultreme:

«Noi siamo esseri elementari. Avremmo voluto nascere virus, ci accontentiamo di comportarci come tali, e checché ne dica la gente non siamo cattivi. Non abbiamo pensiero, non produciamo opinione, anzi non produciamo affatto e non facciamo testo. Noi siamo il testo.»

Non ricordo in Italia checché di simile. Quando si imposero negli Stati Uniti le opere di David Foster Wallace e di Mark Z. Danielewski e di William Vollmann, perlomeno a me era chiaro che la narrazione stava muovendosi in direzioni tutt’altro che previste dalle canoniche, cioè da quelle badesse che sempre tentavano e tentano il canone, maggiore quanto minore (quest’ultima è un’ossessione insopportabile), con categorie che ammorbano inefficacemente quelle premesse inutili che sono: l’idea di stile, l’idea di forma, l’idea di lingua, l’idea di ritmo, l’idea di immagine, l’idea di struttura. E’ evidente che lo stile è qualcosa di ben diverso e assolutamente eterogeneo rispetto all’idea di stile. L’immagine, che è ritmo e struttura e suono, non ha nulla a che *vedere* con l’idea di immagine né il ritmo, che è un’unica immagine vuota che ha un suono vuoto, non batte dove l’idea duole e vuole. Cosa stava succedendo, mentre le canoniche facevano rindondare le campane a morto sulla formazione umanistica di noi che leggevamo anche oltreoceano (esattamente come leggevamo Aldilà e, addirittura, leggevamo Di Là Da Venire)? Succedeva quello che intimamente stava in quel sistema di complessità, di vuoto assoluto e di etere, che è intima alla scrittura italiana, dall’albo versorio in poi, ma direi anche ben prima, addirittura prima dei carmina per Mavors. Succedeva che la forma del vocì, il ritmo del vocìo e la struttura del vocìo, nella letteratura statunitense di epoca imperiale, prendeva il sopravvento su qualunque altra categoria o nicchia ermeneutica. In particolare era la centralità supposta del plot narrativo a finire gambe all’aria. Pare non entrarci nulla, però era una delle manifestazioni del poematico di Eliot, in particolare quel poematico che ha corpo nella “Waste land”, ad attrarre la lingua scritta, in modo sempre più parossistico e accelerato. Ovvero: il silenzio bussava alle porte. Entriamo, entriamo nel silenzio, lavorando l’idioma inglese: saranno problemi, che al momento la letteratura di lingua angloamericana sta accusando, sul piano spettacolare. Quale lingua è all’altezza della trasparenza che il silenzio esige, per quintessenza e fenomeno? Si tratta della lingua poetica. L’italiana è lingua poetica? Lo è per natura, è preternaturalmente così. Il destino, da sempre, della narrazione italiana, in quanto è il destino della lingua italiana da sempre, è questo tintinnio che il Novecento mondiale ha conosciuto con Walser, Kafka, Beckett, Eliot, Wallace Stevens, Celan e molti altri. Quel tintinnio era da sempre ovunque e sempre: da Hugo viene fuori Baudelaire. Cosa ha a che fare tutto ciò con “Liberal”? Che?, per caso Sortino è ad altezza Kafka? No. Però il libro di Sortino ripristina un movimento, che è quello tutto della prosa italiana, e in ispecie della prosa italiana negli ultimi due decenni: il movimento che dalla prosa va verso la poesia e che dalla poesia va verso l’inqualificato. E’ un momento cruciale, questo che viviamo, come qualsiasi momento che non abbiamo o abbiamo vissuto. La crucialità è data dall’esperienza della non-forma, il che è molto difficile, poiché si tratta non della non esperienza: la non-forma è qualcosa di specificamente aspecifico, di profondissimo e superficiale. La musica novecentesca, la pittura novecentesca, la scultura novecentesca hanno avuto principalmente a che fare con l’esperienza non-formale. Non sono sicuro che sia chiaro che la migliore letteratura novecentesca, ovvero la letteratura tout court, ha compiuto la stessa esperienza. Mentre si ciancia del romanzo, del personaggio, della trama, del genere, della fiction nonfiction autofiction, della ipo para tassi (il mio supplizio contemporaneo, per quasi mezzo secolo di vita, è stato quello di subire questo ciarlìo: si sta sempre a bordo della nave dei folli…), i nostri migliori scrittori, ai quali Paolo Sortino appartiene senza alcun dubbio, si sono mossi per entrare ancora più “a fondo” nella non-forma. Ci sono riusciti? Boh. Hanno “prodotto” opere d’arte? Mah. Però questo hanno fatto e stanno facendo. E’, questo approfondimento dell’esperienza non-forma, il criterio unico di cui dispongo nel mio presente per avvertire questo: l’interessante. La narrazione, la poematica di “Liberal”, forse ancor più che del precedente splendido Elisabeth (Einaudi), sta proprio in questa sparizione in presenza, in questa etericità, in questo oggetto che non è sagomato in quanto è l’esperienza tutta, la profondità tutta. La scena in cui Elisabeth è sparita nel carcere ed esce di colpo dalla parete, che è per me uno dei momenti più impressionanti del recente passato letterario italiano, ottiene in “Liberal” la sua fioritura in scrittura sacra, la quale è parodia del sacro, così come la tragedia è la parodia della scrittura sacra e la poesia parodia della tragedia e la prosa parodia della poesia. Paolo Sortino, in pratica, tenta (non dico: riesce; dico: tenta) di fare ciò che Milo De Angelis ha fatto in poesia. Ci tenta per tutto il libro, che già solo per questa irresistibile profondità e intensità del tentativo, se non è arte, la sfiora: come minimo. Tutto è il vetro della lente di una macchina da presa digitale. Quante cose accadono al di fuori e dietro e dentro l’obbiettivo? Questa domanda non ha nulla a che vedere con le filosofie settantine e ottentotte dell’assenza, del fantasma, del metalivello: queste cose non c’entrano nulla. Qui si è in presenza della “New Thing”: ecco qualcosa di non esperito, quindi di arcaico, quindi di trapassato futuro. Il più nuovo dei giorni è il più antico dei giorni, nel romanzo poematico “Liberal”. E’ tutto lì, tutto converge lì, tutto esplode da lì e lì esplode, la logica matematica è la stessa cosa della narrazione Harmony, Hegel si capovolge nel pattinatore anarchico di “Rollerball”, Edipo è Edipo e Antigone dove è andata?, il dantesco era petrachesco, la lingua sarà sempre in quanto è l’umano e il codice esplode di istante in istante, Lucio Fontana Lancia Yves Klein Nel Vuoto. Altroché postmodernismo, altroché postmoderno, altroché avantpop e indietro tutta: si fa l’esperienza del senza nome: dando i nomi e dando i numeri. Ne fuoriesce un’esperienza letteraria di caratura che impressiona il meditabondo e aggrava il lieve e diverte lo stronzo. E’ un passo in una transumanza che misuro da quando ho la coscienza di essere cosciente di essere consapevole che posso ricordare: si va nella poesia, sempre. Fate l’esperienza, io ve lo consiglio.

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