Alessandro Gazoia (Jumpinshark): “Come finisce il libro”

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Venerdì, il 4 luglio, insieme all’autore Alessandro Gazoia, in arte Jumpinshark, a Milano, presso la bellissima libreria Gogol&Company (via Savona 101, ore 19.30), presento il saggio “Come finisce il libro”, che Alessandro ha pubblicato con minimum fax (http://bit.ly/1o1WA8K).
Non sono un fanatico del discorso sull’editoria. So bene come si è sviluppato nel corso di due decenni. Prima era il discorso sull’economia nuova che la Rete avrebbe imposto. Erano peana surreali, per quanto oggettivamente predittivi, circa nuove modalità di conoscenza, di esperienza, di emotività. Gli alfieri della New Economy stavano descrivendo un futuro non si sapeva quanto imminente e lo scontro di paradigmi ebbe questo effetto: poiché descrivere è attuale, allora il nuovo paradigma è attuale, ma, siccome non è vero che è ora, fingiamo di crederlo e creiamo una bolla. Di lì si creò, per l’appunto, una bolla. I nomi sacri di quel periodo grottesco e vivibilissimo sono ora dimenticati. Erano cialtroni che scrivevano su “Wired” (allora era una testata americana snobbatissima in Italia), frequentavano il MIT non si sa a che titolo, svernavano in Italia a colpi di conferenze strapagate. Si sentivano guru e lo erano, non importa se davvero o per finta: questa distinzione ontologica ed epistemologica non aveva senso in quel tempo. Poi arrivò l’ondata del 2.0 con il suo cazzo di marketing orripilante, la “coda lunga” e la “viralizzazione”. Il discorso si spostava sempre più sulla distribuzione: di notizie, di esperienze, di emozioni, di psiche e vita non vivente – tutto immaginario. L’immaginario, per quanto farlocco, diventa vero; non ci si rassegna mai abbastanza alla constatazione circa l’esistenza di questa potenza. Le immagini si incarnano e fanno l’azione. La retorica che sortì dall’avvento della nuova generazione di guru (le generazioni andavano rattrappendosi ad archi biennali) coincise alla lunga con una delle più spettrali crisi di mercato dell’occidente che, immiserito nelle sue prospettive immaginarie, chiese a questa economia da bolla di rattoppare la realtà. Speculazione contro speculazioni: il serpentone di denaro aveva preso vita autonoma nei cieli terrestri e la palla sembrava passare ai fantasiosi installatori di flipper nelle cantere aziendali. Tutto molto postfordismo postlitteram, ma tant’è. Sempre tagliando con l’accetta i fatti e gli svolgimenti, è a questo punto che si insinua nella provincia più imperiale dell’impero stesso, ovverosia l’Italia, una modalità di discorso e di pratica davvero rivoluzionaria: è in Italia che la distribuzione si manifesta quale centro politico. Il politico è il distributivo, nella nazione che si è permessa di eleggere a vertice del politico il vertice della distribuzione (Berlusconi come emblema: distribuiva immagini, informazioni, finzioni, emozioni, merci, vestiti, alimentari e libri, ovviamente). In tre anni, questi ultimi tre anni, non esiste più il discorso culturale come campo, in Italia. Le cazzate editoriali hanno preso la scena tutta. Gli editoriali equivalgono oggi a quegli operai cinesi con le cuffie e le uniformi bianche, stipate come gallinacei in un’aia paraindustriale che chiamano ancora industria. Un editoriale non sa niente e ne va orgoglioso. Teorizza cazzate: leggibilità, trama, soggetti, format. Teorizzate le cazzate, gli editoriali le fanno mettere in pratica. Non ne sortisce un successo che sia uno. Ma non importa, perché importa la “cloud”, ovvero una nebulizzazione delle esperienze in cui chiunque spara la sua cazzata, che non sarà mai più quella suprema, poiché il supremo è un livello gerarchico che l’esperienza della “nuvola” desidera abolire. E’ paradossale che un sistema gerarchico (in senso logico-matematico, cioè di programmazione) abolisca le gerarchie, sottraendo le differenze per stiparle in contenitori impliciti, gli stili-vitali, i css esistenziali. Ciò frutta due risultati. Da un lato c’è il predominio dell’orizzontalità, che si definisce come pari opportunità o democrazia diffusa, con l’enfasi della condivisione. Dall’altro lato vengono confuse le tassonomie (in effetti le tassonomie del “digitale” sono a dire poco ridicole e inesistenti: il sistema “a tag” è comico, ma è anche cognitivamente ed emotivamente tragico). Da questa confusione, che pare una diffusione dell’accesso, si mutua un ciclo economico che non ha nulla a che vedere con il ciclo dell’acqua, di cui la nuvola naturale sarebbe un comprimario essenziale. La “nuvola”, intesa come sistema ambientale in quanto sistema distributivo, impatta soprattutto in Italia con evidenze al limite del patafisico. Questa lunghissima premessa appartiene a un sillogismo la cui premessa minore vuole essere il saggio di Alessandro Gazoia e, per quanto riguarda la conclusione del sillogismo, anch’essa coincide col saggio di Jumpinshark. A differenza di tutta la saggistica dedicata alla “nuova editoria” e al sistema di diffusione contenutistica attraverso le “piattaforme” odierne, Alessandro Gazoia compie un’operazione che secondo me è semplicemente decisiva. Questa operazione, essendo politica in quanto politico è qualunque atto realmente intellettuale, ha una natura linguistica. Fa impressione osservare, nel corso della lettura appassionante di questo saggio, come l’autore sappia che scrive nell’immemorabile: in una lingua e in un tempo che passano. Si desidererebbe questo, dalla letteratura: scriviamo in una lingua che passa e, quindi, senza creare feticci apotropaici, si acclude al discorso la morte del discorso stesso e, nonostante ciò, si compie il discorso. All’elevatissimo grado di sviluppo dinamico che sta forse trainando la forma-libro verso qualcosa di ancora non precisatosi all’orizzonte temporale, Gazoia risponde trattando poeticamente la materia instabile che affronta. La sua fenomenologia è un’interpretazione provvisoria per natura, ma che non spartisce nulla con la decostruzione di cui è figlia. Si dà una precisione cartesiana che lascia a bocca aperta, invece. Il racconto delle compossibilità attuali a cui espone la forma di distribuzione del dato letterario e culturale, e di conseguenza del sistema che lo emette, ormai distantissimo dall’idea di consorteria inefficace di un’umanità ridotta a élite malcerta e malfunzionante, è uno specchio delle anime semplici, una specie di parodia delle possibilità teologiche di chi affronta qui e ora il problema della propria origine divina. Il lettore privilegiato, quale io sono occupandomi da decenni di editoria e di distribuzione della cultura, può di grado in grado subire dei contraccolpi cardiaci al racconto del presente formulato da Jumpinshark. E’ infatti questo il dato più perturbante: in “Come finisce il libro” (titolo di brillantissima polisemia) il presente racconta il presente, non anticipa il futuro. Si scova linguisticamente un hic et nunc che soltanto la specie allucinata degli editor italiani interpreterà come mappatura tecnica dell’attualità. Basti osservare un passaggio, tra l’esilarante e il lugubre, in cui Gazoia ci introduce alle fortune del neogenere antiletterario “Dinosauri rapiscono ragazze”, per emblematizzare i processi produttivi e promozionali e di “scopribilità” che la falsa democrazia a nome Amazon permette di sviluppare ai suoi utili idioti. E come sono trattati da idioti, finalmente, questi utili operai della diffamazione spirituale a mezzo stampa elettronica! E a quale genere apparterrebbe dunque questo saggio? Pensato come infinita premessa, con un appello al Lettore (e alla Lettrice, anche, con opportuni spostamenti) che sembrerebbe una retorica manzoniana protratta fino all’espolosione, sembra una narrazione fabulistica: “lector in fabula”, in qualche modo. E’, ben più che una sociologia, completissima e aggiornata e implicitamente profetica, un’antropologia assoluta, poiché sempre assoluto e particolare è il qui e ora. Non farò l’elogio delle capacità di scrittura, ovverosia di sguardo, che permettono a Gazoia di declinare il discorso in un modo che conforta il cuore, oltre che la mente. Sottolineo soltanto uno dei moltissimi segmenti che compongono un mosaico di impressionante estensione e bellezza. Si tratta del coraggio. Non ho personalmente conosciuto un’epoca più debolista e arrogante di questa che sto vivendo (le epoche si contano in Italia a decenni: ho vissuto quattro epoche e mezza, io…). E’ osceno che questa arroganza debolista venga elevata a critica, ma è anche sintomatico. Arriva una mente filosofica, cioè *seriamente* filosofica, e mostra le strutture complesse di un’esperienza fortissima che stiamo tutti compiendo. Ciò comporta un rapporto continuo con il paradigma della morte. Quindi, forse, il saggio “Come va a finire un libro” è davvero una favola filosofica. Non vedo un testo veracemente voltaireano nel panorama italico, se non questo
Meno male che gli squali esistono ancora e saltano, incarnando l’esperienza del crollo di qualunque serial, appena esso ha raggiunto il suo apice.

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