Leggere “L’armata dei sonnambuli” di Wu Ming

L'armata dei sonnambuli - Wu Ming - Einaudi

Ho terminato ierinotte la lettura dell’ultimo/primo Wu Ming, “L’Armata dei sonnambuli” (Einaudi Stile Libero). Dico primo e ultimo perché qui siamo alle fondamenta celesti. Accade qui un fenomeno di svolta. Questo testo, così come “Q”, non era e non è e non sarà interpretabile con gli strumenti della critica testuale novecentesca: la mette fuorigioco, la sovrasta utilizzando, come scherzo (uno scherzo universale), gli apparati della filologia novecentesca. Stracolmo di intratesti, di intertestualità, l’iper-romanzo di Wu Ming conduce la critica novecentesca a un salto tra un easter egg e l’altro, prendendo sommariamente in giro la volontà meccanica dell’interpretazione stupida. La stolidità umana, la sua bêtise, è infatti uno dei “temi musicali” di questo complesso, affascinante fondamento mobile della narrativa secondo il collettivo bolognese. Che affronta primariamente il “simbolo”: dopo un nomadismo tra soggetti letterari rappresentati emblematicamente dalle rivoluzioni nella storia e nella geografia umana, Wu Ming affronta la rivoluzione per antonomasia, cioè quella francese. Avvicinarsi tramite i saperi a questo soggetto narrativo identificato è un’opera folle e tipica della scemenza umana. C’è scemenza e scemenza, però, così come c’è apparentemente umano e umano – due potenze umane si affrontano, ovunque, e sono quella antiumana che irrigidisce lugubremente il movimento e quella propriamente umana, che è vivere avventura, varcare le soglie dell’ignoto, tuffo nel diveniente, elaborazione ludica del canone storico che è sempre l’avvenire, il mai finito, l’inclusione della memoria in questo cosmico gioco di bambini regali che sempre ripeteranno che il re è nudo. O senza testa. La panoramica iniziale hugoliana, che fa volare lo sguardo sulla piazza della rivoluzione parigina (“Parigi a volo d’uccello”), ha la funzione medesima dell’incipit di “Notre Dame de Paris”: una descrizione fisiognomica dei nasi rivoluzionari identica a quella del carnevale medievale effettuata da Hugo. Il rovesciamento del potere in una festa senza limiti, che è gioia e tragedia, la “volta buona” che libera dalle catene della storia la comunità degli oppressi, il momento vissuto una volta per sempre, senza idealismi, attraverso pasticci linguistici, codici che saltano e si mescolano, un meticciato allegro e crudele, la tragedia che equivale alla commedia, la furbizia che mesta nel torbido e il torbido che si fa di un nitore esemplare, poiché gli esempi vengono ricordati e imitati o, anche se non imitati attraverso la volontà istruita da una pedagogia sovrastorica, ripetuti con i ritmi con cui gli archetipi dialogano tra loro. Bisognerebbe scrivere un trattato su questo libro, sfera armillare dove si intreccia una sapienza artigianale che dura ormai da un ventennio, periodo di tempo che viene eletto da noi italiani a durata media degli orrori di cui siamo capaci, e che Wu Ming ha rovesciato *culturalmente* in una cavalcata entusiasmante che ha fatto crollare le barriere e i paletti del romanzo storico, pur rispettandoli amorosamente. Apparentemente è un romanzo d’appendice (un romanzo d’appendicite per i lettori malevoli e stolti). Qui è possibile infatti soltanto sottolineare il piacere della lettura che “L’armata dei sonnambuli” concede a chi ne faccia l’esperienza. Metafore incastrate in doppie metafore che diventano allegorie, una sapienza dei tempi e delle svolte, la lentezza dosata che diviene velocità, nervo, elettricità. E’ in effetti un romanzo *anche* sull’elettricità. Dal punto di vista storico il mesmerismo, fede nel magnetismo che contagia con la sua febbre una popolazione illuminista, è uno snodo centrale che lega la rivoluzione francese alla costituzione statunitense (Lafayette, occulto mesmerista, istruì Washington, che propose di iscrivere gli Stati Uniti d’America nel culto mesmerico come religione ufficiale, all’interno di un capitolo centrale della carta costituzionale: saltò all’ultimo). Ciò che poteva essere e non è stato ma potrebbe ancora essere e forse sta per essere, anzi c’è la certezza che sarà: ecco il motore della metafisica narrativa di Wu Ming, collettivo dichiaratamente antimistico e antimetafisico, nonostante i suoi componenti pratichino correttamente la metafisica, apparentemente solo en privé. Sulla metafisica narrativa del collettivo sono certissimo che si gioca tutta la partita del godimento delle loro opere, che sono sproni alla pratica, sono pratiche, sono campi aperti di interrogazione e mobilitazione. Non c’è politico senza metafisico, il quale non significa né ideologico né Soggetto Regnante: significa anzi il contrario, la distruzione dell’Ego occidentale, questo orrendo prodotto sempre restaurato, questa malattia dell’equivoco che riduce la storia a un museo immobile e pietrifica il vivente. Storia della rivoluzione di tutte le rivoluzioni, che fa saltare i linguaggi per creare ex novo altri linguaggi, altissimo vertice del pop in cui sono cresciuto e mi sono formato (cioè: non mi vergogno a dire che “Lady Oscar”, nella mia personalissima sensibilità, non corrobori il movimento e non entri nella costellazione costituita da questa summa romanzesca, almeno quanto le letture dei voluminosi tomi di Furet impostimi da mio padre), “L’armata dei sonnambuli” è un libro che va letto e basta – e poi eviscerato, mandato in infinitudine, a contagiare come mesmerismo tutto e tutte e tutti, in un rovesciamento della “cattiva infinità” di cui fu padre teorico Hegel, uno di quelli che mi sembrano essere espliciti nemici di questa narrazione, il filosofo che vede Napoleone dalla finestra di casa e inventa su quella figurina a cavallo la categoria dell'”uomo cosmico-storico”, ulteriore restaurazione che lotta contro l’eroe, cioè il personaggio principale e ambiguo di cui il racconto della storia non può fare a meno di narrare. Vabbè, sono appunti impressionistici, ma davvero è difficile dire qui perché Marie Noziére si chiama davvero così e cosa c’entrano gli Area e perché D’Amblanc si chiami Orphée e quale inferno scenda a violare per riportare cosa in superficie e fallendo in che modo. Leggete questo romanzo e unitevi al coro di tutti noi, adepti di Scaramouche e del fluido magnetico che, esattamente come accade per il veleno, che in greco fa “phàrmakon”, può essere mortale o salvfico: dipende dalle prospettive e dai modi d’uso e dall’impiego quantitativo di quella qualità. Perdonate dunque l’astrattezza e l’idiosincrasia del linguaggio qui impegnato, distantissimo dall’ingaggio di Wu Ming, eterodosso rispetto all’epica di epiche che questo romanzo costituisce. E’ solo un invito a leggerlo, questo romanzo: a leggere, a fare, a essere.

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