Eccezionalità di “True detective”

Torno sulla serie tv “True detective”, dopo avere già commentato l’eccezionalità del prodotto (nel video, la sigla di apertura). Non si tratta di opera d’arte, ma all’opera d’arte cinematografica si avvicina; non si tratta di produzione pop, in quanto non pare esistano le condizioni per l’entrata in immaginario collettivo, oggi, a pochi anni, addirittura a pochi mesi, dall’ingresso in un malcerto immaginario popolare da parte di prodotti tv come “Lost” o “Breaking bad”. Tuttavia, così come nell’emersione Peppa Pig o “film della Marvel”, in generale non si danno nella realtà occidentale i tracciati minimi di un cerchio magico che, in epoca di educazione al boom e alla volatilizzazione delle merci, costituì un certo immaginario collettivo. E’ una questione molto complessa e generale, andrebbe sondata con più rigore di quanto conceda questa sede volante, la quale è puro discorso e pura idiosincrasia. Salto quindi il fondamento epistemologico di ciò di cui discetto e continuo a discettarne.
Al momento, di “True detective”, su otto puntate realizzate, sono stati messi in onda quattro episodi. Non si tratta di una saga, non ha nulla di epico, ha piuttosto qualcosa di topico, di assolutistico, che continua a entrare in dialettica con il narrativo e, quindi, con quella fugace illusione che hanno costituito i “generi” della narrativa, incondizionatamente, per un paio di decenni, peraltro quelli in cui mi sono formato. E’ possibile quindi accennare ad alcuni “segmenti” di una poetica di genere, in questo caso “noir” o “thriller” o “thriller occulto”, in cui la serie eccelle e sconquassa per qualità qualunque precedente: l’ambientazione, per esempio; la costruzione dei personaggi; la tramatura; l’interpretazione. “True detective” è ambientata in una Lousiana che viene intensificata quale luogo totale. E’ la Louisiana, certo, con quegli alberi cadenti, rovinosamente spioventi una lanugine vegetale via via delabré e inquietante e rigogliosamente onnipresente, con la presenza fluviale che opprime per vastità e lutulenza; tuttavia è anche il Texas, per espliciti richiami della trama e sequenze in luoghi da rodeo, con vecchi barbuti nordamericani a cui hanno abituato gli spettatori planetari film su film, ultimi dei quali probabilmente “Kill Bill” e “Non è un paese per vecchi”; è la Corn Belt con il suo presbiterianesimo messianico, i tendoni sotto cui arringa col suo angosciante sermone un prete che non lo è per davvero; è certa Alaska per converso e in modo antifrastico (uno dei due protagonisti sostiene di essere cresciuto in Alaska e di essere riparato nel Texas dove non fa freddo). I personaggi principali sono due detective che vengono interrogati a posteriori, dopo quindici anni, quando sono totalmente trasformati, nel sembiante e nelle professioni e nelle situazioni esistenziali in generale, il che consente ai due interpreti d’eccezione, cioè Matthew McConaughey e Woody Harrelson, di fornire prove stratosferiche di recitazione e trasformismo. Viene completamente sbriciolato il dualismo razionale/irrazionale, buono/cattivo, borghese/antiborghese, nonostante insista la pressione a considerare verisimili ruoli complementari dei due protagonisti. Essi sono erosi dall’interno e dall’esterno da una sorta di esistenzialismo metafisico, che via via si esprime attraverso dimensioni corporee e linguistiche, raggiungendo momenti da tragedia classica o abbassandosi a una sorta di gnosi da supermercato, quando il cosiddetto “privato” collide con l’aspetto “pubblico” dell’indagine. La trama percorre stazioni che costituiscono la norma ideale di un genere narrativo: ritrovamento del cadavere; accentuazione dell’elemento esoterico, che si manifesta attraverso un estetismo peculiare della morte (“Il silenzio degli innocenti” è probabilmente il punto a cui hanno guardato gli autori); correlazione labirintica degli indizi; ritrovamento di un luogo significativo che devia l’attenzione e al contempo la concentra sul fuoco narrativo; lotta contro il tempo, che alza la tensione a ogni rinvio e a ogni svolta di revoca possibile; armonizzazione emotiva del “privato” dei protagonisti con la quintessenza dell’indagine; scoperta della correlazione apparentemente decisiva, attraverso moltiplicazione delle morti connesse alla prima; individuazione del punto di fuga, che può essere decisivo o sbagliato, permettendo di mantenere aperta la situazione cognitiva e quella emozionale; motivazione personalistica dei protagonisti, che fa salire la scena a un’assolutezza non più istituzionale, con l’indagine che viene portata avanti al di là del quadro normativo stabilito dai poteri, poiché “è una questione personale”; inizio dell’azione con retorica “helter skelter”. Almeno, fino a qui, i punti nevralgici del genere “thriller” sono rispettati. Essi vengono violati dall’interno, grazie anzitutto alle interpretazioni degli attori e alla scrittura dei dialoghi e del film; in seguito, alla regia, che prende una svolta autoriale impressionante, nel momento in cui la trama sembra cadere e indebolirsi in direzione dell’inverosimile. La cifra di questa svolta registica autoriale è un immane piano sequenza, che dura l’impossibile, in una scena di azione collettiva mai prima osservata in tv e, anche al cinema, assai poco vista. Si tratta di una sequenza alla Micheal Mann di “Collateral”, in un luogo aperto e chiuso ed estesissimo, un quartiere residenziale che è in realtà un ghetto pericolosissimo, sopra cui incrociano, incoerenti in quanto solitamente visti in contesti di forte urbanizzazione metropolitana, elicotteri che consentono una compresenza di luci diversissime tra loro, autentica microfisica da fotografia in una pellicola. E’ davvero impressionante. La lentezza con cui tutto avviene è velocissima. Ne sortisce una sensazione da sogno lucido, da rinvio dell’incubo, da tantalizzazione della materia narrativa e psichica.
Tutto ciò è permesso dalla presenza metamorfica, a volte statuaria e glaciale, altre volte calda ma controllata e delirante o sapienzale, di questo prodigio attoriale che è Matthew McConaughey, indifferentemente dominante con un sembiante da William Bourroughs quarantenne o da James Coburn sessantenne nevrotizzato. Mi sembra che sia possibile affermare che, insieme a Ryan Gosling, Matthew McConaughey sia al momento il migliore interprete hollywoodiano in assoluto.
E tuttavia le soglie si sfaldano, gli angeli e i demoni svaporano, le storie fanno cilecca, le psicologie saltano confondendosi, l’improbabilità azzera la verisimiglianza, i motori narrativi si inceppano eppure la narrazione prosegue e si fa addirittura più interessante: si esaspera proprio l’interesse, la misteriosa connessione incantatoria tra chi vede e ciò che si vede. Si tratta di un’operazione consapevole, da parte del creatore della serie Nic Pizzolatto, il quale può variare in territori ulteriori forniti dall’esplorazione letteraria, grazie anche all’apporto decisivo dell’editore, la sempre benemerita HBO. La narrativa, che raramente è arte, e quella italiana in primis, avrebbe tanto da imparare dalle declinazioni della libertà che “True detective” si permette, impartendo una lezione per me abbastanza memorabile a quello che una volta fu, e ora non più, il comparto umanistico alle nostre latitudini.