Ponso: su L’IMPERO FAMILIARE di Gentile

di ANDREA PONSO

Se la narrazione è una linea che  – volente o nolente, e anche attraverso le vie più impervie e inusitate –  congiunge un inizio e una fine, il lavoro di Andrea Gentile, in qualche modo, contraddice e potenzia tutto questo, accelera e immobilizza tale percorso. Il punto di partenza, infatti, è una fine che non finisce, sfinita ma tenace quanto l’estinzione del genere umano  –  mentre quello di arrivo è la presunta scomparsa, l’irreperibilità di un inizio, di una genesi, di una nascita che, se diventa fantasmatica nel suo punto di estinzione, sembra possedere anche la capacità retroattiva di cancellare le sue conseguenze fino al punto della sua nascita.

Si comincia infatti dall’agonia immobile del Vicario di Cristo, spiata e quasi sostenuta respiro dopo respiro dai mezzi d’informazione e, quindi, anche dalla parola – e si prosegue (se la parola ha ancora un senso all’interno di questo sismografo narrativo), con la ricerca della madre, del suo corpo o del suo irrigidimento tragico in cadavere, presentito come già presente, già accaduto ma impossibile da certificare e da toccare. È questa l’ossessione che guida la protagonista ma, come sappiamo, ogni ossessione non è mai progressione quanto piuttosto un girare a vuoto, come una trivella che affronta le asprezze e le stratificazioni della terra portando inevitabilmente con sé il corpo, i contorni e l’io di chi la incarna dolorosamente ma, anche, amorosamente, senza volersene staccare  –  come se solo in questa unica ossessione fosse possibile protrarre, anche se in negativo, come una corteccia che lentamente e metodicamente si scortica, la propria terremotata consistenza, la propria impossibile unificazione.

Tutto è vuoto in questa rincorsa che ha il ritmo e l’ictus pulsante di un buco nero; eppure, come in un buco nero, al suo limite percepibile, che viene chiamato, non a caso, orizzonte degli eventi, tutto assume un peso e una consistenza materica senza precedenti. Tutto è vuoto, certo, ma è un vuoto che ha un peso insostenibile, tanto che potremmo dire parimenti che tutto è pieno, pesante  –  e che ogni movimento è impedito da una forza di gravità schiacciante, opprimente: tanto quanto quella del corpo del Vicario di Cristo, il cui ictus è la sola misura metrica, atona, da cui si diramano le scosse, scheggiate e doloranti oltre la stessa percezione del dolore, che “s-muovono” questa scrittura letteralmente refertuale.

In questa spaccatura tra ritmo e silenzio si apre la voragine della scomparsa della madre: vero e proprio spazio di nascita, ventre che letteralmente dà luogo all’ossessione e, quindi, come già abbiamo detto, alla possibilità di una seppur minima consistenza del soggetto protagonista. Siamo in un territorio che, per certi aspetti, potremmo avvicinare alla condizione di “terrore della lingua” segnalato per la poesia di Andrea Zanzotto. La ricerca di immagini, di specchi che possano in qualche modo, anche solo per un attimo, mostrare il riflesso della protagonista, viene continuamente cercata e fuggita  –  tra l’impossibilità di un fondamento ontologico (il Vicario di Cristo) e la responsabilità nei confronti del desiderio e, quindi, del nascere e soprattutto dell’essere nati (la madre). Se nella lingua e nello stile del poeta di Pieve di Soligo l’etichetta di “letteratura” aveva ancora la sua forza di consistenza, già comunque inevitabilmente e profeticamente compromessa con il suo contrario, vale a dire con il rigor mortis e il blocco asfissiante della Norma  –  la lingua e lo stile di Gentile non posseggono più nemmeno questa infernale e paradisiaca sicurezza: sono infatti una sorta di alfabeto morse, un continuo sussulto come di chi procede a tentoni  –  sono la registrazione del respiro sempre più flebile e intralciato del Vicario di Cristo, un respiro sorvegliatissimo, che assume volumi universali e si espande in tutto il paese in trepidante e tragica attesa come il pulsare stesso di un millenario e sfinito universo; un respiro che è come lo stile di Gentile, perché ad ogni scossa ulteriore si va verso la morte e l’estinzione (anche la liberazione?)  –  ma si va anche verso la madre e l’origine, forse già morta o irreperibile.

Ma, in fin dei conti, non si può, nonostante tutto, non chiedersi “dov’è ora, adesso, la madre?”. La risposta, o le risposte, non sono univoche, non lo possono proprio essere; come non può e non vuole essere univoca, mi pare, l’interpretazione di questo scritto: si è chiamati, infatti, ad entrare in queste pagine lasciandosi accadere e cadere, e incespicare, senza la pretesa di ricostruire, di segnare sentieri già percorsi. Si è chiamati piuttosto a farsi anche noi sismografi, cercando di registrare quello che in noi si scuote e ci squassa in questa immobilità di pietra sorda e opaca. Allora, per tornare alla domanda sul luogo della madre: dov’è? Io posso dare la mia risposta, corrispondere la mia vibrazione, la mia screpolatura, lasciando cadere in mille pezzi il mosaico che forma la mia percezione, la mia cultura, la mia esperienza. E la risposta che riesco a darmi è proprio il cadere di tale mosaico, e non posso non vederlo provando profonda misericordia. A mio modo di sentire la madre è ovunque in questo libro, mentre il cercarla è solo un espediente per allungare la vita (o la non-vita della protagonista): è ovunque perché è il grembo sterile che continua a far nascere il mondo morente che la protagonista attraversa nella sua ossessione; è ovunque, ma non vista dall’interno dell’ossessione stessa  –  perché è la stessa madre a generarla, a distaccarsene per darla alla luce  –  quasi come se ogni consistenza oggettuale o soggettiva non fosse altro che l’effetto di una ossessione omnipervasiva che siamo soliti chiamare “realtà”. Una luce che, tuttavia, la protagonista sembra non potere o volere vedere, tanto è accecante e calcificata in ogni cosa, ad ogni passo, in una prossimità insostenibile, come quella della morte stessa che nasce  –  e, in questo, forse le differenze tra la madre e il Vicario di Cristo non sono più così grandi; anzi, in certi punti esse tendono tragicamente alla coincidenza  –  come quando padre e madre generano biologicamente un figlio, anche un figlio abortito, mai nato.

È la mancanza tragica e tuttavia del tutto grigia e consueta di relazione, di relazioni, che impedisce all’ossessione in cui è richiusa la protagonista di vedere e percepire qualcosa di “umano”, di poter davvero parlare, di sciogliere le scaglie balbettanti del suo terrore in undiscorrere piano  –  lasciandola invece in uno scorrere granuloso, a sbalzi, a scalini duri e secchi  –  ansimando in agonia, in sintonia solo con il respiro del Vicario morente e di un mondo che si fa deserto strettissimo, cunicolare, venoso ma senza la vita impetuosa del sangue. Per questo “tutto è museo”, un “museo” fatto per non essere visitato da nessuno, come ci dice la protagonista in uno dei suoi incontri che non sono mai veri incontri,  ma scontri abrasivi e, in fondo, inconsistenti: è questa contiguità tra abrasività e inconsistenza, mi pare, una delle trovate più interessanti e sconcertanti della scrittura di Andrea Gentile.

Ma, allora, cosa rimane a chi scrive e al lettore? Sembrerebbe, una sorta di “stanza dei relitti fonico-visivi” che la protagonista, nella sua ricerca, visita all’interno dell’ospedale deserto dove lavora la madre. Forse la madre è lì? Forse la letteratura è diventata un immenso reparto ortopedico, dove ogni postura della lingua si sbriciola e viene fantasmaticamente conservata come si fa con le cose che ci hanno colpito nel profondo, nel nucleo, nelle ossa disarticolate o spezzate o anche solo incrinate? Si sta, immoti, anche in questo “qui”, senza possibili e facili risposte  –  oppure con risposte fabbricabili all’infinito, come opere di ortopedia, tentativi di ristabilire posture, cenni, ictus, modi di deambulare o di rimanere in equilibrio. Ma la protagonista sembra voler rinunciare o non poter approfittare del rollare di questi infiniti relitti fonico-visivi: nella loro fluttuazione, distruzione e ricomposizione, essa rimane “ferma”, non acconsente con la sua persona al gioco dell’infinito intrattenimento, alla modalità difensiva e, tutto sommato, salvifica, di certo postmoderno. Forse solo un crocifisso, nel coacervo di immagini e relitti fonico-visivi assume, agli occhi della protagonista, una consistenza che si può dire “immagine pura”, forse un “segno”, che vuole dire qualcosa: “cosa vuole”  –  prima che tutto riprenda ad esplodere all’infinito. Tutto questo, oltre al deposito della Norma zanzottiana, richiama alla mente il guardarobato beniano, quello da lui stesso definito “obitorio delle lettere italiane” o, anche, gli ingranaggi stridenti della poesia di Amelia Rosselli: amati e odiati insieme, attraversati pericolosamente e umilmente per non rimanerne per sempre imprigionati. Infatti, anche questa scrittura punta, mostrando tutta la sua debolezza e finitezza, ad un oltre, ad una unità che non si dice ma si sente, c’è  –  tragicamente incistata su se stessa, dietro ogni relitto, ogni frase, ogni accelerazione o immobilità.

Il finale è e deve rimanere di calce (un tempo) viva  –  magari da grattare, in-utilmente, con gli artigli dell’arte, fino alla loro completa e lentissima erosione che, come una peste, prenderà progressivamente anche le mani e tutto il resto dell’immagine dell’uomo. Nel libro del Levitico si dice che, una volta che la malattia ha preso tutto il corpo, esso viene ripulito e sanato, di nuovo reso puro e santo. Il finale deve rimanere bianco.