Daniele Del Giudice: ORIZZONTE MOBILE

orizzonte_mobile-del_giudiceOvviamente, dopo quanto detto qui, non ho più intenzione di recensire giornalisticamente un libro, a meno che non si presentino determinate condizioni per cui ritenga opportuno utilizzare la retorica del giornalismo cosiddetto culturale. Intendo limitarmi a enunciare sintetiche e magari criptiche segnalazioni, comprensibili nel lessico a chi frequenti costantemente queste pagine. Critica di gusto e ragionamenti che pertengono me e che offro nella maniera più innocente possibile, senza garantire che, leggendo eventualmente i libri di cui mi occupo occasionalmente, si possa concordare con quanto sento io. Si tratta di segnalazioni sintetiche – l’invito è materialmente ad acquistare e leggere i libri in questione.

Orizzonte mobile di Daniele Del Giudice è a mio parere una convulsione prosastico-poetica che entra in un’ormai implausibile storia della letteratura. E’ un libro che, per dirla come si diceva un tempo, ha destato tutta la mia ammirazione e il mio entusiasmo, oltre che un amore e una gratitudine che non immaginavo di tributare a questo autore. Il romanzo si apre con uno degli incipit più furibondi e belli degli ultimi decenni – in una pagina quanto altri fanno stare in 1.000:

“Vorresti gridare subito la tua storia, vorresti dire ‘Talvolta credi di commettere tutti gli errori passati e futuri’, oppure ‘Ogni uomo porta in se stesso una camera’, oppure ‘Se potessi capire come mai è finita così’, in bilico sopra un filo, un fuso, ma se è vero che ogni uomo ha in se stesso una camera, la tua è tutta in disordine, sul comò si ammucchiano vecchie fotografie, e tu penseresti ‘E’ impossibile ricordare tutto’, invocheresti la distrazione perché è la sola che scampa al dolore, e intanto in una scatola nell’armadio di cucina c’è un uovo di pinguino, bucato e svuotato dal bianco e dal tuorlo, riportato dal Sud più profondo, il più profondo e radicale dei Sud, un gelido Meridione. […] Ecco, vorresti gridare subito un grumo di dolore, o di gioia, che non si articola in parole ordinate, ma tutte insieme, esplose come esplode una stella, e c’è un silenzio attonito e glaciale, e dov’è la calma allora, dov’è la tua calma, dov’è il governo, dove la composta malinconia dell’imperscrutabile capitano, un po’ distratto, un po’ silenzioso, colui che tiene le fila, un uomo sui fili che ha voluto tendersi da sé?
I fili sono trecentosessanta, ma ventiquattro contano più degli altri, dodici verso destra e dodici verso sinistra, e da qui potrei cominciare, ma cominciare significa decidere un prima e un dopo, dare un ordine, isolare dal flusso, rompere la simultaneità, uscire dalla compresenza, fare come se esistesse una frase alla volta, un’immagine alla volta, un pensiero o un ricordo o un racconto alla volta, uno e poi uno e poi uno, e non tutto insieme. Sforzati di restare in questo disordine, di aderire ad esso, ma non è facile e non sempre è possibile, non sempre ci riesco.”

Questa, per me, è storia della letteratura, anche se Del Giudice è mio contemporaneo e il presente si sconsiglia di storicizzarlo.
Io non comprendo certi apprezzamenti circa la scrittura di Del Giudice, che a mio parere è uno degli autori più importanti in Italia negli ultimi decenni. Non sono un suo fan e la sua poetica è molto distante da ciò che cerco personalmente, ma davvero non capisco come si possano attribuire caratteristiche di cerebralità, “calvinismo” (da Italo miscompreso, chiaramente), algebricità, esattezza a uno scrittore che, nello stile e nella struttura e nello scavo è intensissimo e spesso delirante, sapendo governare la lingua la manda in zone oltre il controllo, ed esercita un impegno civile altissimo (chi, oltre a Del Giudice, davvero chi?, ha messo le mani nella materia putrida, oscena, intoccabile di Ustica? Dico: tentando l’impossibile redenzione, restituzione letteraria: questo perenne smacco, questo scacco a priori…). Viene ascritto, Del Giudice, a una linea fredda, quando è uno dei massimi esponenti di una linea calda della prosa italiana, per riprendere una celeberrima categorizzazione, non essenziale ma buona per un uso grezzo qual è quello che qui si adotta.
Orizzonte mobile è un libro fatto di spigoli, inserti in cui la scrittura è addirittura pura traduzione, e in cui il viaggio di iniziazione è il viaggio in senso totale: è lo spaesamento, lo spostamento in un territorio alieno in cui l’altro è extraterritoriale, dove non è possibile distinguere più tra interiore ed esteriore, dove ciò che si vede non è mai stato visto prima anche se ne è stata tramandata la notizia e la sagoma immaginale, e infine è lo stare fermi nell’infinità, laddove muoversi è talmente compresso dalle prospettive indefinite che, alla fine, spostarsi è identico all’essere immobili.
La domanda metafisica posta da Del Giudice in questo libro: l’orizzonte è mobile perché si sposta oppure sono io che, spostandomi, vedo muoversi la linea tra terra e cielo? C’è un punto di condensazione in cui il divenire e l’essere sono totalmente identici? Posso giungere, io, a una tale estremalità della mia esperienza, e cioè dell’esperienza in toto? La risposta è: sì.
L’Antartide di Del Giudice è un luogo assoluto che concilia l’estremalità tragica e quella comica, aprendo uno spazio di stupore che fa cedere qualunque deposito storico e culturale, esponendo il sé (dello scrittore e del lettore insieme: criterio da non sottovalutare) a una nudità totale nel confronto con una radura che non si sa più se è fisica (e, se fisica, se è terrestre) o interiore. Scaraventati nell’oblio, proprio mentre li si disseppellisce traducendoli, i diari di viaggio degli esploratori dei ghiacci antarticio divengono emblema di tutta la tradizione umana, dello schianto che la cultura subisce quando impatta contro la banchisa della natura sconcertante e astrale in cui siamo gettati nell’esistere in questo universo materiale e spirituale, psichico ed emotivo. E’ un’operazione totalmente obliqua rispetto alla tradizione narrativa italiana. In quanto tale, Orizzonte mobile è un libro che è stato prevedibilmente miscompreso oggi, ma che dovrebbe restare, perché è un libro assai importante. E’ il romanzo dello thaumàzein dell’epoca contemporanea italiana. Si pone ad altezze a cui arrivano pochi.
A queste altezze soltanto è possibile giungere a una lingua totalmente indifferente al tempo, cioè alla declinazione temporale dei verbi, cioè ancora all’ordine delle azioni rispetto a una supposta cronologia lineare. Del Giudice è precisamente a queste altezze:

“Ho chiesto [passato prossimo, ndr] all’usciere, che doveva [imprfetto, ndr] essere [infinito, ndr] anche il sagrestano, di parlare [infinito oggettivato, ndr] con il rettore. Mi ha risposto [passato prossimo, ndr] che era [imperfetto, ndr] in clinica, sarebbe tornato [condizionale passato in futuro anteriore, ndr] mercoledì, e il nuovo rettore era appena arrivato [trapassato prossimo, ndr]. Secondo il rettore, e anche secondo me [sospensiva rispetto allo smottamento temporale, ndr], conviene [presente, ndr] aspettare [infinito, ndr] quello vecchio [aggettivo significante passato per esaltare il verbo finale, ndr] che sarà [futuro, ndr] qui [presente implicito nell’avverbio di luogo, ndr] mercoledì [futuro implicito che rovescia il presente dell’avverbio, ndr].”

Sono pochissimi gli scrittori in grado di fare questo, nascondendolo mentre lo si mette davanti agli occhi. E’ molto più semplice la spettacolare, industriale logorrea sperimentalista (non necessariamente delle avanguardie storiche, sia chiaro), la quale non si cale della leggibilità. Qui c’è invece qualcosa di artesiano e, al tempo stesso, di lanciato orizzontalmente a velocità che superano il muro del suono.
Io non so se consigliare vivamente Orizzonte mobile: ho il timore che, nuovamente, non venga compreso, e che il lettore rimanga deluso. Francamente, per quanto concerne me, è uno dei libri di discrimine nella produzione letteraria italiana.